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L’Azienda sanitaria locale non è obbligata a “bonificare” gli ambienti di lavoro da eventuali microspie.


La sezione territoriale pugliese si sofferma su una fattispecie piuttosto singolare. Il dirigente pro tempore dell’Area Gestione Patrimonio di una ASL pugliese aveva conferito, nella propria qualità, un incarico professionale – formalizzato mediante la stipulazione del relativo contratto – ad una società specializzata nel settore delle investigazioni private avente ad oggetto l’esecuzione di un’”attività di consulenza e bonifica ambientale”.

All’emissione della fattura in conseguenza dell’esecuzione della concordata attività di bonifica, il nuovo dirigente, succeduto alla direzione della struttura beneficiaria della prestazione erogata, nel provvedimento di liquidazione, da un lato ne ordinava il pagamento e, dall’altro, dopo aver dato atto della circostanza che la società incaricata espletasse servizi di vigilanza presso strutture amministrative e sanitarie dell’ASL, poneva in luce come esse, seppur effettivamente espletate, non risultassero “strettamente connesse alle attività istituzionali dell’Azienda”. Non era noto ai subentrati vertici aziendali il motivo che avesse indotto ad affidare l’incarico in questione né si rinveniva alcun riscontro in relazione all’esecuzione dell’attività espletata.

In sede istruttoria il dirigente chiamato a rispondere del proprio operato si difendeva sostenendo la legittimità dell’incarico conferito sul rilievo che, in un periodo immediatamente precedente ad esso, fossero state rinvenute, all’interno del proprio ufficio, una telecamera e dieci microspie, in relazione alla cui rimozione veniva doverosamente informata la competente Procura della Repubblica. Tale circostanza suggerì quindi al medesimo di effettuare un intervento diretto a scongiurare il rischio che analoghi strumenti atti alla captazione “da remoto” di conversazioni o alla registrazione di immagini fossero stati installati presso i restanti uffici dell’area di competenza, per un totale di n. 14 ambienti. Peraltro, veniva sostenuto come il Regolamento del Fondo Economale della ASL di appartenenza concedesse una franchigia (pari ad Euro 3.000) al di sotto della quale non fosse necessario procedere ad alcun confronto concorrenziale per l’affidamento del servizio, ancor più giustificato dalla circostanza che la società, già incaricata di altre attività dalla medesima ASL, fosse anche specializzata in operazioni di bonifica ambientale.

La sezione territoriale ha condannato il dirigente al risarcimento del danno rappresentato da tale spesa.

Essa infatti è stata ritenuta illegittima a prescindere dalla pur riferita esistenza di un regolamento economale aziendale che, seppur effettivamente esistente, non potrebbe conferire un potere di spesa “al buio”, quasi un’area “franca” per l’addebito all’ente di appartenenza delle spese ritenute necessarie, secondo un parametro di insindacabile discrezionalità, dal dirigente dell’area di competenza.

Il giudice di prime cure, infatti, ha precisato ancora una volta come tutte le spese sostenute dalla pubblica amministrazione, al di là di quelle rese obbligatorie dalla legge (a mero titolo esemplificativo, le spese connesse all’assolvimento degli obblighi ricadenti sui soggetti datoriali per la messa in sicurezza degli ambienti di lavoro), debbono essere rivolte, in via diretta o strumentale, al perseguimento delle finalità pubbliche alla cui cura la specifica istituzione, assegnataria delle risorse finanziarie ad esse vincolate, è preposta. La circostanza, infatti, che fossero state rinvenute all’interno dell’ufficio, numerosi dispositivi di captazione delle conversazioni e di videoregistrazione delle immagini, puntualmente segnalata all’autorità giudiziaria per l’individuazione dei soggetti ritenuti responsabili (ma anche potenzialmente scriminati se rappresentati da ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria nello svolgimento di un’‘intercettazione “rituale”’ consistente “nell’apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio” (C.Cost., sent. 81/1993; Cass., Sez. Un., 23 marzo 2000, n. 6), non legittima l’adozione di un ulteriore provvedimento, diretto a “bonificare” (con ogni intuibile aggravio di costi) gli ambienti occupati dai restanti uffici dell’area di competenza.

Merita di essere segnalato come il Collegio abbia anche indagato il concorrente profilo della tutela del segreto d’ufficio in relazione a dati ed informazioni, potenzialmente acquisite dall’intrusione rilevata nell’occasione, ritenuto insufficiente per rivestire di legittimità la spesa sostenuta.

Premesso che “per notizie di ufficio che devono rimanere segrete si intendono non solo le informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quelle la cui diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, perché effettuata senza il rispetto delle modalità previste ovvero nei confronti di soggetti non titolari del relativo diritto” (Cassazione penale, sez. VI, sentenza 28/02/2013 n° 9726 ed anche, in senso conforme, Cass. Pen., sez. VI, sentenza 24 luglio 2007, n. 30148), dall’esame della disciplina emerge come la tutela del segreto d’ufficio (per i casi che ancora residuano nella legislazione nazionale e salva la disciplina relativa alla tutela delle informazioni “classificate”) sia interamente costruita sull’individuazione di precisi doveri di riservatezza ricadenti sul funzionario pubblico, cui non si ancora – viceversa – alcuno specifico obbligo dell’amministrazione nella medesima direzione, sì da giustificare il sostenimento di una spesa della specie contestata.

 


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