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Cda partecipate: al dipendente dell’ente socio non è erogabile alcun compenso


L’articolo 4, commi 4 e 5 del d.l. 95/2012 ha disciplinato nuovi vincoli al numero e compensi per i membri dei consigli di amministrazione delle società partecipate dagli enti locali, limiti che si sommano e che, quindi, devono essere coordinati con quelli contenuti nella legge 296/2006 (legge finanziaria 2007).

In particolare, il legislatore ha stabilito al comma 4 che i consigli di amministrazione delle società che nel 2011 hanno fatturato almeno il 90% a favore degli enti pubblici soci (ex art. 4, comma 1) devono essere composti da non più di tre membri, di cui due dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione o dei poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra gli enti soci.

Il terzo membro (nominato anche tra soggetti diversi) potrà svolgere le funzioni di amministratore delegato.

Per tutte le altre società (che non rientrano nel comma 1, diverse dalle strumentali) il comma 5 ha previsto che “fermo restando quanto diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge, i consigli di amministrazione delle altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta, devono essere composti da tre o cinque membri” e per quanto riguarda la composizione di tali organi si applicano i criteri del “precedente comma”.

In ordine a tale ultima disposizione, una prima riflessione deve essere effettuata sul fatto che per le società diverse dalle strumentali che devono essere dismesse o messe in liquidazione nel 2013 (praticamente tutte quelle che potranno essere mantenute) la norma non pare ammettere la possibilità di nominare un amministratore unico, facoltà consentita per le strumentali (comma 4).

Tale possibilità sembrerebbe comunque ancora ammessa in virtù dell’inciso “fermo restando quanto diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge” e quindi grazie alla disciplina civilistica.

Inoltre, nell’ottica del contenimento della finanza pubblica, avere un unico amministratore può determinare anche una riduzione dei costi e, pertanto, sembrerebbe legittimo ritenere che gli enti soci possano ancora optare per tale soluzione se espressamente disciplinata nello statuto delle società.

La seconda riflessione deve essere fatta considerando l’obbligo imposto dal legislatore di riversare all’ente socio i compensi spettanti ai dipendenti pubblici nominati membri del consiglio di amministrazione.

Il comma 4 stabilisce infatti che “i dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione hanno obbligo di riversare i relativi compensi assembleari all’amministrazione, ove riassegnabili, in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio”.

Il dubbio sorge in merito alla possibilità di considerare o meno tali somme “riassegnate al fondo” vincolate e quindi erogabili ai dipendenti coinvolti, quale trattamento accessorio in virtù di una valutazione positiva della ulteriore attività svolta.

Su tale questione, la Corte dei Conti, sez. contr. della Lombardia, con la deliberazione n. 96 del 22 marzo 2013 ha fornito alcuni chiarimenti.

I magistrati contabili hanno chiarito che la normativa contempla due ipotesi, relativamente ai compensi i compensi erogati ai dipendenti pubblici nominati nei cda i società:

– controllate dalle p.a. di cui all’art. 1 comma 2 del d.lgs. 165/2001;

– a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta.

Nel primo caso, trattandosi di posizioni di mero controllo o di partecipazione anche non maggioritaria, ciò che rende applicabili i limiti ai compensi e la loro destinazione è il conseguimento per l’anno 2011 del fatturato da prestazione di servizi a favore delle pubbliche amministrazione per una percentuale superiore al 90%.

Nel secondo caso, la soggezione ai vincoli pubblicistici sui compensi discende direttamente dall’essere la società totalmente in mano pubblica, secondo i meccanismi dell’in house providing e del controllo analogo.

L’attività prestata dal dipendente pubblico nominato, proprio per la sua pregressa investitura di pubblico funzionario, quale membro del cda della società pubblica, rappresenta una mera modalità di incarico al medesimo conferito in ragione dell’ufficio ricoperto o comunque conferito dall’amministrazione in cui si presta il servizio.

La prestazione lavorativa del dipendente infatti soggiace al principio di onnicomprensività della retribuzione e il trattamento economico erogato remunera tutte le funzioni e compiti ad esso attribuiti.

Secondo la Corte dei Conti, il dipendente pubblico nominato membro di un consiglio di amministrazione di una società partecipata non può beneficiare di alcun trattamento economico ulteriore, derivante dal relativo ufficio poiché esso va ad esclusivo vantaggio del bilancio di esercizio dell’ente locale che dispone la nomina.

Questo principio vale per il personale con qualifica dirigenziale, per il quale i magistrati contabili hanno richiamato l’articolo 20, comma 1 e 2 del ccnl. 22 febbraio 2010, che stabilisce che “in aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato possono essere erogati, a titolo di retribuzione di risultato, solo i compensi espressamente previsti da specifiche disposizioni di legge, come espressamente recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione collettiva nazionale e secondo le modalità da queste stabilite”.

Ma tale principio vale anche per il personale senza qualifica dirigenziale, in quanto in carenza di specifiche disposizioni legislative e contrattuali circa la destinazione del compenso al dipendente, il corrispettivo previsto dalla società è posto ad esclusivo vantaggio del bilancio della p.a., alleggerendo gli oneri finanziari dell’amministrazione.

Secondo i magistrati contabili, pertanto, per i dirigenti tali somme non potranno essere aggiunte in aumento al fondo, ma dovranno essere utilizzate per la sua quantificazione ordinaria, né potranno essere erogate al personale privo di qualifica dirigenziale, non essendo legittima un’eterointegrazione dei compensi incentivanti in assenza di meccanismi previsti in tal senso dalla contrattazione collettiva, tesi ad incrementare la retribuzione di risultato.

 

 


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