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Servizi pubblici: gestione diretta solo per quelli privi di rilevanza economica


Cons. Stato, 26 gennaio 2011, n. 552 e Tar Lazio, sez. II ter, 4 febbraio 2011, n. 1077
di Federica Caponi

Nessuna norma impone ai comuni, secondo il Consiglio di Stato, di affidare all’esterno la gestione dei servizi pubblici, ove l’amministrazione preferisca la gestione diretta in economia.

Non sussisterebbe infatti l’equipollenza dei termini “affidamento diretto” e “gestione diretta”.

Al contrario, per il Tar Lazio, gli enti potrebbero esercitare tale scelta soltanto per la gestione dei servizi privi di rilevanza economica.

Inoltre, saremmo di fronte a servizi privi di rilevanza economica ogni qual volta i margini di profitto della gestione siano particolarmente ridotti.

Questi gli interessanti e dibattuti principi sanciti in due recenti pronunce del Consiglio di Stato e del Tar Lazio, depositate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, riguardanti entrambe la gestione del servizio di illuminazione votiva.

Il caso

La questione affrontata dal Consiglio di Stato ha riguardato il ricorso presentato da una società avverso l’atto comunale con la quale l’ente aveva deciso la revoca dell’affidamento all’esterno del servizio per tornare alla gestione in economia.

I giudici in primo grado avevano accolto il ricorso, ritenendo che la gestione dell’illuminazione votiva cimiteriale, in quanto servizio pubblico a rilevanza economica, non avrebbe potuto essere svolta in economia dal comune, ai sensi dell’art. 23-bis, d.l. n. 112/08, che imporrebbe l’affidamento della gestione a terzi.

Il comune ha impugnato la sentenza, sostenendo che sussisterebbe differenza tra i termini “gestione diretta” e “affidamento diretto”, modalità di gestione entrambe ammesse dal dettato legislativo richiamato.

Fattispecie simile a quella affrontata dal Tar Lazio, al quale si è rivolta una società avverso l’atto del comune con il quale era stato deciso di tornare a gestire direttamente, in economia, il servizio dopo diversi anni di gestione esternalizzata, in concessione.

La precedente concessionaria aveva sostenuto che tale servizio, in quanto avente rilevanza economica, non potrebbe essere gestito in economia dal comune, ai sensi dell’art. 23-bis del Dl. n. 112/08.

La soluzione

Il Consiglio di Stato ha ritenuto che sussista una netta distinzione tra gestione diretta e affidamento diretto, in quanto il termine “affidamento”postula la scelta dell’ente di attribuire la gestione di un servizio all’esterno, mentre per “gestione diretta o in economia” deve intendersi l’ordinaria erogazione del servizio da parte dell’ente con proprio personale.

Secondo il Consiglio di Stato “non si vede per quali motivi un ente locale debba rintracciare un’esplicita norma positiva per poter fornire direttamente ai propri cittadini un servizio”, tipicamente appartenente al novero di quelli per cui esso viene istituito.

Secondo i giudici amministrativi, l’art. 23-bis del dl. n. 112/08 non conterrebbe alcun divieto esplicito, né implicito in tal senso.

Interpretazione non condivisa, tra l’altro, dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto equipollenti i termini “gestione diretta” e “affidamento diretto”, nella recente (e particolarmente articolata) pronuncia n. 325/10, con cui ha dichiarato la legittimità costituzionale del citato art. 23-bis.

La consulta ha infatti sostenuto che la normativa comunitaria consente (ma non impone) agli stati membri di prevedere la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, mentre lo Stato italiano, “facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei spl” ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto (l’art. 23-bis appunto).

Al contrario, secondo il Consiglio di Stato, anche considerando l’esigenza ormai prioritaria di riduzione della spesa pubblica, non sarebbe ammissibile sostenere che un comune (magari di piccole dimensioni) non possa gestire direttamente un servizio, come quello dell’illuminazione votiva cimiteriale, soprattutto quando tale gestione necessiti di pochi dipendenti e la spesa annua sia contenuta, “laddove l’esborso sarebbe notoriamente ben maggiore solo per potersi procedere a tutte le formalità necessarie per la regolare indizione di una gara pubblica”.

Tale considerazione è da sola sufficiente, per i giudici amministrativi, per ritenere sempre legittima la gestione diretta (in economia) dei pubblici servizi locali in base alle autonome scelte organizzative dei comuni, nel rispetto del principio del buon andamento della p.a. e in armonia con i principi comunitari.

Il Consiglio di Stato ha così accolto il ricorso del comune, dichiarando legittima la scelta dell’ente di erogare direttamente il servizio di illuminazione votiva con proprio personale.

Il Tar Lazio ha ritenuto che gli enti locali possano scegliere di gestire direttamente un servizio o affidarlo all’esterno soltanto nel caso in cui si tratti di servizi pubblici privi di rilevanza economica.

Soltanto per tali servizi, secondo il Tar, non sussisterebbe l’obbligo per il comune di affidare la gestione all’esterno, mentre tale vincolo sussisterebbe per quelli con rilevanza economica.

Entrambe le pronunce hanno dichiarato legittimo l’operato del comune coinvolto, sostenendo però posizioni interpretative divergenti.

Problemi e aspettative

La pronuncia del Consiglio di Stato appare condivisibile, in quanto i termini gestione diretta e affidamento diretto afferiscono a fattispecie diverse e non omologhe.

La disciplina contenuta nell’art. 23-bis del dl. n. 112/08 regola le modalità di scelta dell’affidatario esterno all’ente, nel rispetto del principio della tutela della concorrenza e del mercato, ambito che appunto viene interessato soltanto nel momento in cui l’ente locale decide di non autoprodurre i propri servizi, ma di acquisirli sul mercato.

Nasce in quel momento, e non prima, l’esigenza di rispettare rigorosamente le regole ad evidenza pubblica, al fine di evitare distorsioni del mercato, nel rispetto dei principi comunitari, in quanto soltanto all’ora l’ente si “affaccia” sul mercato per individuare l’operatore economico migliore per le proprie esigenze.

Non sembrerebbe quindi in contrasto con il dettato del citato art. 23-bis la scelta dell’ente di gestire direttamente i servizi.

Inoltre, ritenere esistente un tale obbligo sarebbe oltremodo economicamente svantaggioso, soprattutto per gli enti di minori dimensioni.

La pronuncia del Tar Lazio, al contrario, non appare condivisibile, non tanto per aver ritenuto esistente un tale vincolo per gli enti locali, quanto per l’interpretazione seguita ai fini della distinzione tra servizi pubblici con e senza rilevanza economica.

I giudici amministrativi hanno infatti precisato che un servizio pubblico può essere qualificato come privo di rilevanza economica ogni qual volta i margini di profitto siano particolarmente ridotti.

In tal caso, secondo i giudici amministrativi, gli enti locali potrebbero gestire direttamente i servizi secondo quanto disciplinato dall’art. 113-bis del Tuel.

Il Tar Lazio ha infatti ritenuto ancora applicabile tale disposizione del Dlgs. n. 267/00, che ammetteva “la gestione in economia quando, per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio, non sia opportuno procedere ad affidamento a soggetti esterni”.

A tal proposito, appare necessario ricordare che tale norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 272/04 e, pertanto, ad oggi dovrebbe ritenersi disapplicata.

La decisione del Tar, comunque, appare poco condivisibile ove sostiene che il servizio di illuminazione votiva sarebbe privo di rilevanza economica “considerati i ridotti margini di profitto indicati dalla stessa ricorrente (contenuti nell’ordine di circa 7.000 euro)”.

Secondo i giudici amministrativi, la qualificazione di un servizio, come avente o meno rilevanza economica, dipenderebbe dall’importo dei margini di profitto, cioè da una condizione che, tra l’altro, potrebbe realizzarsi in base a una mera scelta politica dell’Ente.

Tale interpretazione non sembra sostenibile in quanto fonda la qualificazione di un servizio come avente o meno rilevanza economica su condizioni o elementi che non attengono alla natura delle attività di cui si discute, ma su scelte meramente politiche.

E’ opportuno ricordare che la giurisprudenza maggioritaria dal 2005 ritiene che la distinzione tra servizi a rilevanza economica e servizi privi di tale caratteristica sia legata all’impatto che l’attività può avere sull’assetto della concorrenza e del mercato (Tar Sardegna, sent. n. 1729/05; Cons. Stato, sent. n. 5072/06).

Appare, infatti, maggiormente condivisibile l’interpretazione secondo cui debba ritenersi avente rilevanza economica il servizio che si innesti in un settore per il quale esista una redditività e, quindi, una competizione sul mercato “ancorché siano previste forme di finanziamento pubblico, più o meno ampie, dell’attività in questione – mentre può – considerarsi privo di rilevanza quello che, per sua natura o per i vincoli ai quali è sottoposta la relativa gestione, non dà luogo ad alcuna competizione e quindi appare irrilevante ai fini della concorrenza”.

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