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Società: I comuni sotto 30’000 dovranno metterle in liquidazione


Dl n. 78 del 31 maggio 2010, art. 14, comma 32
di Roberto Camporesi, Commercialista, associato Studio Boldrini

«32. Fermo quanto previsto dall’art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società. Entro il 31 dicembre 2010 i comuni mettono in liquidazione le società già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne cedono le partecipazioni. La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società, con partecipazione paritaria ovvero con partecipazione proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società; entro il 31 dicembre 2010 i predetto comuni mettono in liquidazione le altre società già costituite.»

Il Governo quasi con puntualità cronometrica inserisce una norma che ha l’obiettivo evidente di ridurre il numero delle società partecipate dagli enti locali.

All’interno della disciplina dell’accorpamento delle funzioni essenziali da parte degli enti locali di piccole dimensione trova collocazione la norma in commento che secondo una possibile  interpretazione letterale determina:

– un divieto per i comuni con popolazione inferire a 30.000 abitanti a detenere partecipazioni in società;

– un divieto per i comuni con popolazione compresa tra i 30.000 e 50.000 abitanti a detenere più di un partecipazione in società di capitale.

Sono sempre ammesse partecipazioni in società con partecipazione paritetica ovvero in proporzione agli abitanti.

La collocazione della disposizione e soprattutto il riferimento a partecipazione paritetica o in proporzione alla popolazione alluderebbe al fine recondito di attuare accorpamento di società per dare luogo ad organizzazioni quali le cooperative (partecipazioni paritetiche) ovvero società di tipo consortile (partecipazione proporzionale alla popolazione) nel lodevole intendo di ridurre i costi di struttura.

Ma il fine non è sicuramente attuabile nella pratica: la riorganizzazione in soggetti accorpati rimodulando le partecipazioni non in ragione dei patrimoni apportati ovvero dei servizi erogabili sul territorio non è la logica delle società e neppure dei consorzi e quindi nessuna disposizione di legge può “andar contro natura”.

L’intento del legislatore diventa del tutto incomprensibile quando si prende in esame la sanzione in caso di inosservanza della legge: la vendita delle partecipazioni o lo scioglimento. Vale a dire imporre effetti devastanti sotto il profilo economico ai comuni soci.

E’ del tutto evidente che le partecipazioni in società di comuni di modeste dimensioni non hanno alcun mercato e bene che vada possono prestarsi ad operazioni di sciacallaggio da parte dei privati o delle società pubbliche di maggior dimensioni: in questo caso il danno erariale è certo e nessun dirigente potrà procedere alla dismissione imposta dalla norma.

In alternativa alla vendita il rimedio, indicato dal Governo in caso si verifichino i presupposti per non detenere la partecipazione,  è rappresentato dallo scioglimento della società stessa: come dire peggio il rimedio del male. La liquidazione di un società comporta notoriamente la risoluzione di tre categorie di problemi a cui deve fare fronte il socio:

– (i) la sorte del personale la cui prima pretesa è il riassorbimento in dotazione organica del Comune dal quale, in molti casi proviene;

– (ii) il carico fiscale per l’assegnazione in natura del patrimonio (soprattutto immobiliare) in capo ai soci (soggetti passivi superstiti alla estinzione della società) che genera materia imponibile sia ai fini delle imposte dirette che IVA;

– il pagamento dei debiti residui che per effetto della messa in liquidazione non potranno più essere onorati con i flussi di ricavi della dinamica gestionale e quindi dovranno essere accollati al socio ente locale.

Emerge dunque una riflessione che è del tutto evidente: l’interpretazione letterale è sconfessata dagli effetti pratici che sono esattamente opposti a quelli voluti da chi ha scritto la norma.

L’ANCI è intervenuta sull’argomento, con la propria nota di lettura della manovra, e sul punto ha espresso la seguente interpretazione: « I Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società, fermo restando quanto previsto dall’art. 3, commi 27\28 e 29, ovvero ad eccezione delle società necessarie costituite strettamente per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’Ente.

Entro il 31 dicembre 2010 i Comuni devono mettere in liquidazione le società già costituite o cedere le partecipazioni.

Tali disposizioni non si applicano nei casi di società a partecipazione paritaria o proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più Comuni che complessivamente superino i 30.000 abitanti; i Comuni tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere una sola società

Si ammette quindi che la norma non può essere letta disgiuntamente dal riferimento alla disposizioni – peraltro richiamate in modo puntuale e preciso – contenute nei commi 27, 28 e 29 dell’art. 3 della Legge finanziaria 2008. Ne consegue, per ANCI, che sono in ogni caso ancora ammesse le società costituite per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente. Affermazione piuttosto generica ma condivisibile in punto di diritto: infatti dette società – quelle che perseguono fini istituzionali dell’ente – sono esattamente quelle richiamata dai commi dell’art. 3 ciatati.

Si ricorda infatti che l’art. 3 commi 27 e seguenti impongono il divieto alle pubbliche amministrazioni di detenere partecipazioni in società ad eccezione di quelle:

– che svolgono servizi di interesse generale nell’ambito dei rispettivi livelli di competenza dell’ente;

– che svolgono  servizi strettamente necessari per il perseguimento delle finalità istituzionale dell’ente.

L’interpretazione generica proposta da Anci deve dunque condurre a non fare alcuna distinzione fra le due tipologie di società giacché anche quelle che per lo svolgimento dei servizi di interesse generale assolvono, ai sensi dell’art. 12 del Tuel, finalità istituzionali dell’ente locale.

Peraltro tale lettura non può essere tacciata di rendere del tutto inefficace la disposizione di legge in quanto vi sono numerose società partecipate dagli enti locali che sfuggono alla classificazione dell’art. 3 comma 27 e seguenti che ora deve essere interpretato in modo rigoroso e restrittivo.

Infatti analizzando il profilo delle società che svolgono servizi di interesse generale occorre avere riguardo a quei servizi di “competenza” dell’ente locale: vi sono servizi di interesse generale che non sono di competenza dell’ente locale !

Analizzando il profilo dell’attività istituzionali deve valere il concetto della “stretta necessità”, requisito non tenuto in particolar conto ma ci è stato ricordato dalla recente sentenza del TAR Puglia n.1898/10 che ha ritenuto illegittimo la partecipazione ad una società che svolge servizi di pulizia per gli uffici dello stesso ente.

La novità della norma in discussione è invece notevole e si articola due livelli:

– il primo riguarda la messa in liquidazione della società illegittima: sanzione prima d’ora mai prevista dal legislatore;

– il secondo il termine del 31/12/2010 che va a ridurre i termini previsti ad esempio dall’art. 23 bis comma 8, del D.l. 112/08 come recentemente modificato per la “trasformazione “ delle società in house, che dovranno accelerare i tempi per non essere poi dichiarate illegittime e quindi poste in liquidazione .

Se l’ interpretazione dell’ANCI verrà confermata, come auspicato in quanto diversamente la norma dovrebbe essere modificata in sede di conversione, la disciplina delle società pubbliche si arricchirà di un ulteriore tassello, la cui interpretazione sistematica con le altre disposizioni già presenti diverrà un esercizio di non poco conto.

Scarica il testo del Dl 78

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