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Dirigenti P.A.: la revoca dell’incarico è legittima solo in presenza di gravi motivi


Corte di Cassazione, Civ., Sez. Lav., Sentenza n. 21212 del 5 ottobre 2009

di Federica Caponi

La risoluzione del contratto di lavoro di un Dirigente del Servizio Sanitario Nazionale e la conseguente revoca dell’incarico è legittima solo in presenza di gravi motivi e previa acquisizione del Parere della Conferenza dei Sindaci, ai sensi di quanto stabilito dall’art. 2, comma 2-bis, del Dlgs. n. 502/92.

Infatti, soltanto in casi di particolare gravità e urgenza, laddove sia dimostrata la sussistenza di gravi motivi, è possibile prescindere dal Parere della Conferenza e revocare l’incarico del Dirigente.

La revoca dell’incarico al Dirigente Sanitario è legittima solo quando ricorrano gravi motivi o la gestione presenti una situazione di grave disavanzo o in caso di violazione di leggi o del principio di buon andamento e di imparzialità dell’Amministrazione.

In tal caso, la Regione può risolvere il contratto, dichiarando la decadenza del Direttore generale e può provvedere alla sua sostituzione, previo Parere della Conferenza dei Sindaci.

E’ possibile prescindere dal tale Parere soltanto nei casi di particolare gravità e urgenza.

Ad esclusione di tali fattispecie, la risoluzione del rapporto di lavoro del Dirigente pubblico è illegittima.

E’ questo l’importante principio ribadito dalla Corte di Cassazione nella Sentenza in commento, con la quale ha respinto l’appello presentato da una Regione avverso la Sentenza della Corte d’Appello che aveva confermato l’illegittimità della revoca dell’incarico di Direttore Generale decisa dalla Regione nei confronti di un Dirigente.

La Cassazione ha confermato l’interpretazione consolidata in Giurisprudenza, secondo la quale il licenziamento del Dirigente pubblico è legittimo soltanto in presenza di una giusta causa, di gravità tale da essere ostativa alla prosecuzione, sia pure provvisoria, del rapporto.

Il fatto

La Regione aveva deliberato la risoluzione del contratto e la revoca dell’incarico di Direttore Generale ad un Dirigente, senza richiedere il Parere della Conferenza dei Sindaci, sostenendo la presenza di gravi motivi, costituiti dalla mancata approvazione di due bilanci d’esercizio consecutivi.

Tale Delibera era stata impugnata dall’interessato di fronte al Tribunale, il quale aveva accolto la domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità della risoluzione del contratto di prestazione professionale e della revoca dell’incarico dirigenziale, condannando la Regione al risarcimento del danno da lucro cessante, biologico, professionale ed esistenziale.

La Regione aveva presentato appello e la Corte, in secondo grado, l’aveva rigettato, ritenendo che la Delibera di risoluzione e revoca non fosse assistita nè dai gravi motivi previsti dal Dlgs. n. 502/92, nè dal requisito di particolare gravità ed urgenza che avrebbe permesso di prescindere dal Parere della Conferenza dei Sindaci.

La Regione ha così presentato appello di fronte alla Corte di Cassazione, sostenendo che la risoluzione del rapporto di lavoro era avvenuta in presenza dei gravi motivi che potevano giustificarla.

Presupposto della Delibera della Giunta Regionale era stata la valutazione negativa del complessivo comportamento del Dirigente, secondo i principi che fondano la responsabilità della dirigenza, avente ad oggetto le prestazioni e le competenze organizzative (comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse assegnate) del personale dirigenziale.

La Regione ha sostenuto che proprio il complessivo comportamento del Dirigente è risultato negativo, avendo lo stesso determinato la mancata approvazione di due bilanci di esercizio, valutata nelle premesse della delibera come causa di estrema gravità, evidenziando la conseguente violazione del principio di buon andamento della P.A., uno stato di conflittualità fra il Dirigente e il Collegio sindacale, causa del mancato rilascio del Parere da parte del Collegio medesimo che avrebbe permesso l’approvazione dei bilanci di esercizio, il venir meno del rapporto fiduciario caratterizzante l’incarico, della credibilità dell’azione amministrativa e la rispondenza ai principi di contabilità regionale.

La Corte di Cassazione ha respinto l’appello, ritenendo che dagli accertamenti contenuti nella Sentenza d’Appello emergeva chiaramente che il Parere della Conferenza dei Sindaci (ex art. 2, comma 2-bis, Dlgs. n. 502/92) non era stato acquisito senza che ricorresse il requisito di particolare gravità ed urgenza che avrebbe consentito di prescinderne.

Inoltre, secondo i Giudici di legittimità, la Delibera di risoluzione del rapporto era viziata anche in ordine alla gravità degli addebiti mossi al Dirigente, in quanto la Sentenza della Corte d’Appello conteneva accertamenti in senso esattamente contrario e contrapponeva sostanzialmente una diversa valutazione della vicenda.

La questione di fondo

La problematica posta al vaglio della Corte di Cassazione attiene alla modalità con cui la P.A., in qualità di datore di lavoro, è legittimata ad esercitare il potere di revoca degli incarichi dirigenziali.

La “contrattualizzazione” della dirigenza pubblica, infatti, non implica automaticamente che la P.A. abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto di ufficio.

Tale legame, infatti, sul quale si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie, tali da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione.

Soltanto così, infatti, il Dirigente può esplicare la propria attività in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Costituzione (Corte Cost.  Sent. n. 233/06; Sent. n. 104/07; Sent. n. 103/07).

La Giurisprudenza maggioritaria ha chiarito espressamente che la revoca delle funzioni, legittimamente conferite ai Dirigenti, può essere conseguenza solo di un’accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all’esito di un procedimento di garanzia che deve essere puntualmente disciplinato.

La disciplina dei Dirigenti pubblici contrattualizzati in relazione a quella dei Dirigenti privati, nonostante quanto sostenuto da una parte della dottrina minoritaria, è sostanzialmente diversa.

Lo svolgimento delle funzioni dirigenziali, difatti, avviene attraverso l’attribuzione dell’incarico di funzioni dirigenziali (art. 19 Dlgs. n. 165/01), in relazione alle attitudini e alle capacità professionali del Dirigente stesso e non in forza dello status di pubblico dipendente con qualifica dirigenziale.

Differenze ancor più rimarcate rispetto al regime di libera recedibilità dei Dirigenti privati, si possono osservare nelle disposizioni di legge in materia di recesso e, in particolare, nell’art. 21 dello stesso Decreto (tra l’altro modificato ulteriormente in tal senso dal Dlgs. n. 150/09, attuativo della Legge n. 15/09), che non dispone in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi la risoluzione ad nutum del rapporto.

E’ necessario, infatti, che i criteri adottati per l’inquadramento in una determinata categoria siano oggettivi, poiché non può ritenersi sufficiente una determinazione formale o nominale di una qualifica, ma deve sussistere la necessaria corrispondenza dell’inquadramento all’esercizio effettivo delle funzioni della categoria stessa.

Tale interpretazione è confermata anche dal fatto che il Legislatore ha previsto che nel caso di contestazione del mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero dell’inosservanza delle direttive imputabili al Dirigente di una P.A., il potere di intimazione del licenziamento, da parte dell’Ente, per giusta causa è condizionato, costituendone un indefettibile presupposto, dall’emissione del Parere obbligatorio e vincolante del Comitato dei garanti (o di altre Commissioni espressamente previste per altri Comparti, come nel caso di quello Sanitario, secondo quanto previsto dal Dlgs. n. 502/92), previsto dall’art. 22 del Dlgs. n. 165/01 in funzione di garanzia ed a tutela del lavoratore contro la discrezionalità assoluta degli organi politici.

Nel caso di specie, la Regione aveva risolto il contratto e revocato l’incarico di Direttore Generale di una Azienda sanitaria, a seguito della non approvazione di due bilanci di esercizio consecutivi.

L’interessato aveva impugnato la Delibera regionale di revoca e, sia il Tribunale in primo grado, che la Corte d’Appello hanno accolto le lamentale presentate, ritenendo la Delibera illegittima.

La Regione ha, quindi, impugnato in Cassazione la Pronuncia di secondo grado, lamentando la violazione degli artt. 2 e 3, del Dlgs. n. 502/92.

Secondo la Regione, presupposto della Delibera della Giunta regionale era infatti la valutazione negativa del complessivo comportamento del Dirigente, secondo i principi che fondano la responsabilità della dirigenza, avente ad oggetto le prestazioni e le competenze organizzative.

La Sentenza che ha confermato l’illegittimità della Delibera di revoca, aveva rilevato che la Commissione ispettiva, istituita dalla Regione, aveva ritenuto tale atto deliberativo viziato, in quanto non avente un valido fondamento giuridico.

La Regione aveva sostenuto che la mancata approvazione dei due bilanci di esercizio, costituiva ex se un grave motivo, stante il carattere di atto fondamentale che tale approvazione riveste per la Asl, anche per la natura di strumento di programmazione e controllo che al bilancio va riconosciuta.

Poichè il bilancio doveva essere adottato e trasmesso dal Direttore generale entro il 30 giugno successivo alla chiusura dell’esercizio cui si riferisce, la violazione di detto termine rileverebbe come violazione di legge, come grave motivo e come mancato rispetto del principio di buon andamento, ed era quindi tale da legittimare la risoluzione del contratto.

Secondo la Regione, non avrebbe avuto rilevanza il fatto che la relazione della Commissione ispettiva avesse concluso nel senso della corretta applicazione dei principi contabili, perchè tale considerazione non avrebbe in alcun modo dimostrato che il bilancio fosse stato adottato tempestivamente.

Inoltre, la Regione nella propria difesa ha richiamato anche la natura privatistica del rapporto di lavoro del Direttore generale, come premessa per la configurabilità di una responsabilità di quest’ultimo per il solo oggettivo ottenimento di risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli obiettivi posti o la grave inosservanza delle direttive impartite dal livello politico competente.

Inoltre, secondo la Regione, la presenza di tali gravi motivi, diventava ininfluente l’acquisizione del Parere della Conferenza dei Sindaci previsto dal Dlgs. n. 502/92.

La Corte di Cassazione ha preliminarmente ricordato che il Dlgs. n. 502/92, stabilisce che il rapporto di lavoro del Direttore generale è esclusivo ed è regolato da contratto di diritto privato, di durata non inferiore a tre.

Tale contratto può essere revocato dalla Regione quando ricorrano gravi motivi o la gestione presenti una situazione di grave disavanzo o in caso di violazione di leggi o del principio di buon andamento e di imparzialità dell’Amministrazione.

In tali casi, la Regione deve provvedere previo Parere della Conferenza dei Sindaci, che deve  esprimersi nel termine di dieci giorni dalla richiesta, decorsi inutilmente i quali la risoluzione del contratto può avere comunque corso.

E’ possibile prescindere dal citato Parere solo in casi di particolare gravità e urgenza.

La Cassazione ha chiarito che, nel caso di specie secondo gli accertamenti contenuti nella Sentenza impugnata, il Parere della Conferenza non è stato acquisito, anche se non sussisteva il requisito di particolare gravità ed urgenza che avrebbe consentito di prescinderne.

I Giudici di legittimità hanno evidenziato, pertanto, che la Delibera di risoluzione del rapporto è viziata, non avendo prodotto la Regione alcun elemento che dimostrasse una particolare esigenza di urgenza e gravità, avendo al contrario dichiarato chiaramente che la presenza dei gravi motivi, che avrebbero giustificato la risoluzione del rapporto, rendevano di fatto “superfluo” il Parere della Conferenza dei Sindaci.

La Corte di Cassazione ha precisato che la Regione ha pertanto trascurato la specifica previsione di legge che, a tal fine, fa riferimento non ai gravi motivi di risoluzione del rapporto ma ai “casi di particolare gravità ed urgenza”.

Tale condizione non è posta dal Legislatore al vaglio dell’Amministrazione, non essendo ammessa alcuna facoltà derogatoria agli Enti.

La stessa Corte di Cassazione, già in precedenza, nella Sentenza n. 3920/07, aveva chiarito che nel caso in cui manchi tale presupposto, “il provvedimento di licenziamento deve ritenersi adottato in carenza di potere, donde la sua nullità ed inefficacia con la correlata prosecuzione de iure del rapporto di lavoro dirigenziale e il derivante obbligo, in capo all’Ente datore di lavoro, di corrispondere, sino all’effettiva reintegrazione del dipendente, le retribuzioni dovute sia in relazione al rapporto di impiego che in ordine all’incarico dirigenziale (queste ultime, ovviamente, sino all’originaria scadenza dell’incarico stesso)”.

La Cassazione ha infatti precisato che in caso di contestazione del mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero dell’inosservanza delle direttive imputabili al Dirigente di una P.A., il potere di intimazione del licenziamento, da parte dell’Ente datore di lavoro, per giusta causa “è condizionato, costituendone un indefettibile presupposto, dall’emissione del Parere obbligatorio e vincolante”.

Tale Parere ha una funzione di garanzia e di tutela del lavoratore contro la discrezionalità assoluta degli organi politici.

Pertanto, mancando tale presupposto, secondo la Cassazione, deve ritenersi che il provvedimento di licenziamento risulta (come nella fattispecie) adottato in carenza di potere, donde la sua nullità ed inefficacia.

Conclusioni

La Corte di Cassazione, nella Sentenza in commento, ha ritenuto il ricorso presentato dalla Regione infondato, in quanto secondo gli accertamenti contenuti nella Sentenza della Corte d’Appello emerge chiaramente che non è stato deliberatamente acquisito il Parere della Conferenza dei Sindaci, nonostante non ricorresse il requisito di particolare gravità ed urgenza che avrebbe consentito di prescinderne.

Infine, i Giudici hanno dichiarato la Delibera di risoluzione del rapporto viziata anche per quanto riguarda la gravità degli addebiti mossi al Dirigente.

Nella Sentenza d’Appello, infatti, secondo la Cassazione, sono contenuti elementi che attestano che le doglianze avanzate verso il Dirigente non hanno natura di gravi motivi e, quindi, tali da giustificare la risoluzione del rapporto.

La Corte di Cassazione ha quindi respinto il ricorso presentato dalla Regione, confermando la Sentenza di secondo grado e condannando la Regione al pagamento delle spese processuali.

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