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Accesso agli atti: il segreto d’ufficio è solo quello imposto dalla Legge


Corte di Cassazione, Sez. VI penale, Sentenza n. 39706 del 12 ottobre 2009
di Chiara Zaccagnini

Chiunque può accedere ai provvedimenti e alle procedure in corso, anche in mancanza del requisito dell’interesse del richiedente, salvo i casi specifici in cui la legge imponga il segreto d’ufficio.

In tal caso solo il soggetto che ha un reale coinvolgimento nella pratica potrà accedervi.

Questo è l’importante principio affermato dalla Corte di Cassazione nella Sentenza in commento, con la quale ha rigettato il ricorso promosso dal Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Bologna avverso la decisione del Tribunale di Bologna, la quale ha assolto un Consigliere comunale dall’indebita divulgazione di documenti e comunicazioni di natura riservata, attinenti alla Casa di riposo comunale.

Il Consigliere era venuto legittimamente a conoscenza di tali informazioni, in quanto titolare di un diritto di accesso, ai sensi dell’art. 43 del Dlgs. n. 267/00, notizie successivamente divulgate ad un giornalista per la pubblicazione sulla stampa.

Il Gip ha ritenuto di poter escludere che tali notizie potessero essere qualificate come atti segreti, in quanto la nozione di segreto d’ufficio, tutelato dall’art. 326 c.p., presuppone che gli atti siano considerati sottoposti a segreto quando specificamente tutelati da espresse disposizioni legislative.

Il procuratore ricorrente sosteneva l’erronea applicazione della legge penale e illegittimo il diritto d’accesso esercitato dal Consigliere.

Il Procuratore aveva ritenuto nella definizione di notizie d’ufficio, che devono rimanere segrete, siano ricomprese non soltanto quelle informazioni sottratte alla libera divulgazione, ma anche quelle vietate dalle norme sul diritto d’accesso e rese note a soggetti non titolari di tale diritto o senza le modalità prescritte.

Tale interpretazione non è stata condivisa dalla Corte di Cassazione che ha chiarito come “la Legge n. 241/90 ha rivoluzionato la disciplina degli atti e dell’accesso agli stessi, fissando il principio secondo cui tutto ciò che non è segreto è accessibile”.

Tale disciplina contiene soltanto la regolamentazione del diritto d’accesso e “non prevede un obbligo di segretezza basato unicamente sull’interesse del richiedente”.

Il Legislatore ha così cercato di limitare l’ipotetico proliferare di richieste che potrebbero paralizzare la P.A., richiedendo il requisito dell’interesse come elemento regolatore al generico principio della accessibilità agli atti, comprimibile solo nei casi espressamente previsti dalla Legge.

Secondo il Collegio, l’inottemperanza all’obbligo del segreto d’ufficio, da parte del Pubblico Ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, è configurabile come reato solo nel caso in cui tale divieto sia previsto e disciplinato da una legge, da un regolamento o dalla natura stessa della notizia, la quale può causare un danno alla P.A..

Se tale divieto non è espressamente disciplinato da previsioni normative specifiche, i documenti e le informazioni sono accessibili a tutti, indipendentemente dalla sussistenza di un interesse legittimo del soggetto che esercita tale diritto.

Nel caso di specie, la Corte ha rigettato il ricorso affermando che tali notizie non erano qualificate come atti segreti, in quanto non era presente alcuna norma che prevedesse l’obbligo del segreto d’ufficio di tali informazioni e, quindi, la condotta tenuta dal Consigliere non poteva essere considerata illegittima.

La Corte ha ritenuto legittima la condotta tenuta dal Consigliere comunale, in quanto allo stesso è riconosciuto, dall’art. 43 del Dlgs. n. 267/00 il diritto all’accesso agli atti e alle notizie utili all’espletamento del proprio mandato.

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