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Incarichi extraistituzionali in assenza di autorizzazione: legittima la sanzione del licenziamento


Lo svolgimento di molteplici incarichi extra istituzionali, produttivi di redditi consistenti, non previamente autorizzati dalla propria amministrazione, legittima la sanzione espulsiva per giusta causa, anche in assenza di una espressa previsione da parte della legge e della contrattazione collettiva.

Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, sezione civile, con la sentenza n. 20880 depositata il 21 agosto 2018.

L’articolo 98 della Costituzione sancisce il principio di esclusività del dipendente pubblico, che si sostanzia nel dovere di dedicare interamente all’ufficio la propria attività lavorativa senza disperdere le proprie energie in attività esterne ed ulteriori rispetto al rapporto di impiego.

Di qui, la conseguenza – formalizzata nell’articolo 53 del d.lgs. 165/2001 per tutti i dipendenti pubblici – che ogni incarico extraistituzionale debba considerarsi evento eccezionale rispetto allo status di pubblico impiegato, come tale necessitante di espresse e limitate deroghe.

Nel pubblico impiego (contrattualizzato e non) l’articolo 53, nel suo insieme, non vieta l’esperimento di incarichi extraistituzionali retribuiti, ma li consente solo ove gli stessi siano “conferiti” dall’Amministrazione di provenienza ovvero da questa preventivamente autorizzati, rimettendo al datore di lavoro pubblico la valutazione della legittimità dell’incarico e della sua compatibilità, soggettiva ed oggettiva, con i compiti propri dell’ufficio.

L’inosservanza dell’obbligo di previa autorizzazione comporta sia sanzioni disciplinari che la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 53, comma 7, del d.lgs. 165/2001, che prescrive il versamento dei compensi indebitamente percepiti all’amministrazione di appartenenza.

L’impianto sanzionatorio posto a servizio dell’effettività dei meccanismi di autorizzazione degli incarichi extralavorativi è stato rafforzato dalla disciplina anticorruzione (legge 190/2012) che ha introdotto il comma 7-bis secondo cui il mancato versamento spontaneo da parte del dipendente “indebito percettore”, costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.

In merito alla sanzione disciplinare, la Corte di Cassazione ha ribadito che la sistematica reiterazione della violazione dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione costituisce una condotta idonea, per la sua gravità, a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e, quindi, a giustificare il recesso immediato o con preavviso (Cass. n. 28797/2017; Cass. N. 8722/2017; Cass. n. 28975/2017).

Quanto, invece, alla quantificazione del debito del dipendente, l’articolo 53, comma 7, del d.lgs. 165/2001, non chiarisce se il recupero delle somme debba avvenire al lordo o scomputando le tasse già corrisposte dal contribuente.

Al riguardo il Consiglio di stato, nel parere n. 1129 del 14 febbraio 2018, ha chiarito che la richiesta di restituzione dei compensi illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente deve avere ad oggetto il compenso “dovuto” (e cioè quello lordo, pattuito per l’erogazione della prestazione oggetto dell’incarico) e non invece il compenso “erogato” o “percepito.


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