Entra in area riservata:
Entra in area riservata:
 

Servizi pubblici: le norme dell’art. 23-bis sono costituzionalmente legittime


Corte Costituzionale, Sentenza n. 325/10
Di Federica Caponi

Le norme che disciplinano la gestione dei servizi pubblici sono costituzionalmente legittime e non contrastano con i principi comunitari, pertanto, la disciplina dell’art. 23-bis del Dl. n. 112/08 e smi continua a trovare piena applicazione.

Questo l’importante principio sancito dalla Corte costituzionale nell’articolata pronuncia in commento, con la quale ha respinto i ricorsi presentati da numerose Regioni, avverso la citata norma del Dl. n. 112/08.

Alla Corte si erano rivolte alcune Regioni, sostenendo l’illegittimità del testo originario (e non più vigente) del citato art. 23-bis, del testo vigente della stessa norma e del comma 1-ter dell’art. 15 del Dl. n. 135/09.

Tali disposizioni hanno introdotto novità normative rilevanti nella disciplina delle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali (spl) e del diritto transitorio degli affidamenti già in corso.

La Corte ha preliminarmente effettuato una puntuale ricostruzione del rapporto tra la disciplina dei spl, ricavabile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta europea dell’autonomia locale, e quella dettata con le disposizioni censurate.

Secondo alcune ricorrenti, le norme interne impugnate si porrebbero in contrasto con la normativa comunitaria e con l’art. 117, comma 1 della Costituzione, violando la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni rispetto all’ordinamento comunitario e agli obblighi internazionali.

Secondo lo Stato, invece, l’art. 23-bis altro non sarebbe che un’obbligatoria applicazione del diritto dell’Unione e non contrasterebbe con la Carta europea dell’autonomia locale.

La Corte Costituzionale ha precisato che nessuna di tali due opposte prospettazioni è condivisibile, perché le disposizioni censurate non costituiscono né una violazione, né un’applicazione necessitata della richiamata normativa comunitaria ed internazionale, essendo compatibili con tale ordinamento.

In ambito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione servizio pubblico locale di rilevanza economica, ma solo quella di servizio di interesse economico generale, rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato Ue.

Da tali norme, secondo i giudici costituzionali, emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di servizio di interesse economico generale, ove limitata all’ambito locale, e quella interna di spl di rilevanza economica, hanno “contenuto omologo”.

Il comma 1 dell’art. 23-bis del Dl. n. 112/08 conferma tale interpretazione, attribuendo espressamente ai spl di rilevanza economica un significato corrispondente a quello di servizi di interesse generale di rilevanza economica, di evidente derivazione comunitaria.

Entrambe le nozioni fanno riferimento infatti ad un servizio che:

Al contrario, secondo la Corte, la disciplina comunitaria del servizio di interesse economico generale e quella dei spl divergono in ordine all’individuazione delle eccezioni proprio alla regola delle procedure a evidenza pubblica per l’individuazione dell’affidatario.

La Corte ha chiarito che la normativa comunitaria ammette l’affidamento diretto (sotto forma dell’in house providing) nel caso in cui l’applicazione delle regole di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto o in fatto, la missione dell’Ente pubblico.

L’art. 23-bis costituisce, al contrario, “uno sviluppo del diverso principio generale costituito dal divieto della gestione diretta del spl da parte dell’Ente locale”.

La normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’Ente locale.

Lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei spl ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto.

Altra differenza riguarda l’affidamento della gestione del servizio alle società miste, cioè con capitale pubblico-privato (così detto Ppp).

La normativa comunitaria consente l’affidamento diretto del servizio (cioè senza una gara ad evidenza pubblica per la scelta dell’affidatario) alle società miste nelle quali si sia svolta una gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato e richiede sostanzialmente che tale socio sia un socio “industriale” e non meramente “finanziario”, senza espressamente richiedere alcun limite, minimo o massimo, della partecipazione del socio privato.

L’art. 23-bis è conforme alla normativa comunitaria, nella parte in cui consente l’affidamento diretto della gestione del servizio, in via ordinaria, ad una società mista, alla doppia condizione che la scelta del socio privato “avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica” e che a tale socio siano attribuiti “specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio” (cosiddetta gara ad evidenza pubblica a doppio oggetto, scelta del socio e attribuzione degli specifici compiti operativi).

La norma del Dl. n. 112/08 si discosta, però, dal diritto comunitario nella parte in cui pone l’ulteriore condizione, al fine del suddetto affidamento diretto, che al socio privato sia attribuita “una partecipazione non inferiore al 40%”.

Tale misura minima della partecipazione (non richiesta dal diritto comunitario, come sopra ricordato, ma neppure vietata) “si risolve in una restrizione dei casi eccezionali di affidamento diretto del servizio e, quindi, la sua previsione perviene al risultato di far espandere i casi in cui deve essere applicata la regola generale comunitaria di affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica”.

Pertanto, anche tale vincolo è pienamente compatibile con i principi comunitari.

Altra differenza attiene alle ipotesi di affidamento diretto (in house) del servizio in deroga alle ipotesi di affidamento in via ordinaria.

Secondo la normativa comunitaria, le condizioni legittimanti l’in house sono:

Viceversa, il Legislatore nazionale, non soltanto richiede espressamente, la sussistenza delle suddette tre condizioni poste dal diritto comunitario, ma esige il concorso delle seguenti ulteriori condizioni:

Tali ulteriori condizioni, sulle quali le Regioni hanno sollevato eccezioni di legittimità, secondo la Corte, si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica.

Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del Legislatore italiano.

Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del comma 1 dell’art. 117 Cost. (come sostenuto dallo Stato), ma neppure si pone in contrasto (come sostenuto, all’opposto, dalle Regioni) con la normativa comunitaria.

In quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri.

Al Legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario.

Pertanto, tale disposizione è compatibile e non in contrasto con i principi comunitari.

In merito al presunto contrasto con i principi del Tuel, la Corte ha chiarito che già l’art. 113 dello stesso Tu. “aveva escluso per i servizi pubblici locali (…) di rilevanza economica ogni gestione diretta, in economia oppure tramite aziende speciali, da parte dell’Ente pubblico”, con la conseguenza che la denunciata illegittimità non può ritenersi esistente.

La Corte ha ribadito che la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica:

Di conseguenza, con riguardo alle norme impugnate, “la competenza statale prevale sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza”.

Tali conclusioni risultano avvalorate dalla nozione comunitaria di concorrenza, che si fonda sulla più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi.

Anche per quanto attiene allo specifico settore del servizio idrico integrato, la Corte ha chiarito che la normativa riguardante l’individuazione di un’unica Autorità d’ambito e la determinazione della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap attiene all’esercizio delle competenze legislative esclusive statali nelle materie della tutela della concorrenza.

Tale disciplina, essendo finalizzata alla razionalizzazione del mercato, è diretta a garantire la concorrenzialità e l’efficienza del mercato stesso.

Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, le regole che concernono l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia della tutela della concorrenza, di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. e), Cost.

Per quanto riguarda le censure relative al regime transitorio, la Corte ha chiarito che è ragionevole che norme in materia di tutela della concorrenza, al fine di meglio tutelare le finalità pro concorrenziali loro proprie, possano essere dettagliate ed autoapplicative.

Inoltre, sempre secondo i Giudici, non appare irragionevole, anche se non costituzionalmente obbligata, una disciplina, quale quella di specie, intesa a restringere ulteriormente, rispetto al diritto comunitario, i casi di affidamento diretto in house (cioè i casi in cui l’affidatario costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla pienamente e totalmente).

Pertanto, il Legislatore nazionale ha piena libertà di scelta tra una pluralità di discipline ugualmente legittime.

E’ necessario inoltre precisare che la normativa censurata non impedisce del tutto all’Ente locale la gestione di un servizio locale di rilevanza economica.

Il bilanciamento tra gli interessi pubblici e quelli privati è stato attuato, in concreto, in modo non irragionevole, per un verso, consentendo alle società a capitale (interamente o parzialmente) pubblico, quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio, al pari di ogni altro imprenditore o società (comma 1 dell’art. 23-bis) e, per altro verso, limitando l’affidamento in house alle ipotesi in cui, pur in presenza di un spl di rilevanza economica, il ricorso al mercato per la gestione del servizio non è efficace e utile (comma 2 dell’art. 23-bis).

Ciò è confermato dal comma 2 dell’art. 3 del Dpr. n. 168/10 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica), il quale stabilisce espressamente che le “società a capitale interamente pubblico possono partecipare alle procedure competitive ad evidenza pubblica di cui all’art. 23-bis, comma 2, lett. a), sempre che non vi siano specifici divieti previsti dalla legge”.

La Corte ha quindi respinto la censura presentata dalle Regioni in merito a tale questione, precisando anche che, nel caso di specie, il margine temporale, concesso dalla normativa censurata per la cessazione degli affidamenti diretti esistenti, “è congruo e proporzionato all’entità ed agli effetti delle modifiche normative introdotte e, dunque, ragionevole”.

Altra questione affrontata dalla Corte è stata quella di chiarire quando possa ritenersi sussistente la rilevanza economica del servizio.

La Corte ha ricordato che né il censurato art. 23-bis, né l’art. 113 del Tuel, nel disciplinare l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica hanno fornito un’esplicita definizione di tale rilevanza.

Tuttavia, la norma del citato art. 23-bis ha indicato all’interprete alcuni elementi utili per giungere a tale definizione, precisando che:

Dall’evidente omologia tra spl di rilevanza economica e servizi pubblici di interesse generale in ambito locale si desume, innanzitutto, che la nozione di spl di rilevanza economica rimanda a quella, più ampia, di servizio di interesse economico generale, impiegata nell’ordinamento comunitario.

La Corte costituzionale, con la Sentenza n. 272/04, aveva già sottolineato l’omologia esistente anche tra la nozione di rilevanza economica, utilizzata nell’art. 113-bis del Tuel e quella comunitaria di interesse economico generale.

In particolare, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria e dalla Commissione europea, per interesse economico generale si intende “un interesse che attiene a prestazioni dirette a soddisfare i bisogni di un’indifferenziata generalità di utenti” e, al tempo stesso, si riferisce “a prestazioni da rendere nell’esercizio di un’attività economica, cioè di una qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato, anche potenziale e, quindi, secondo un metodo economico, finalizzato a raggiungere, entro un determinato lasso di tempo, quantomeno la copertura dei costi”.

Si tratta dunque di una nozione oggettiva di interesse economico, riferita alla possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente, reale o potenziale.

Se si ragiona sulla base di una siffatta ampia nozione comunitaria di interesse economico, è agevole rilevare che gli indici empirici di tale interesse, quali lo scopo lucrativo, l’assunzione dei rischi dell’attività, l’incidenza del finanziamento pubblico, possono essere utili solo con riferimento ad un servizio già esistente sul mercato, per accertare se l’attività svolta sia da considerare economica.

Ciò però non significa che l’economicità dell’interesse si debba determinare ex post, esclusivamente in base a tali indici, e cioè a séguito di una scelta discrezionale dell’Ente locale competente circa le modalità di gestione del servizio.

Al contrario, nel caso in cui si debba immettere nel mercato un servizio pubblico e, quindi, si debba accertare se e come applicare le regole concorrenziali e concorsuali comunitarie per l’affidamento della sua gestione, occorre necessariamente prendere in considerazione la possibilità dell’apertura di un mercato, obiettivamente valutata secondo un giudizio di concreta realizzabilità, a prescindere da ogni soggettiva determinazione dell’Ente al riguardo.

Le disposizioni oggetto di impugnazione, secondo la Corte, non fanno esclusivo riferimento ad un servizio locale operante in un mercato già esistente, ma riguardano servizi dotati di mera rilevanza economica e, quindi, anche servizi ancora da organizzare e da immettere sul mercato, evidenziando le due seguenti fondamentali caratteristiche della nozione di rilevanza economica:

La Corte ha infatti chiarito che “i servizi pubblici locali non cessano di avere rilevanza economica per il solo fatto che sia formulabile una prognosi di inefficacia o inutilità del semplice ricorso al mercato, con riferimento agli obiettivi pubblici perseguiti dall’Ente locale”.

La rilevanza economica sussiste anche quando, per superare le particolari difficoltà del contesto territoriale di riferimento e garantire prestazioni di qualità anche ad una platea di utenti in qualche modo svantaggiati, non sia sufficiente l’automaticità del mercato, ma sia necessario un pubblico intervento o finanziamento compensativo degli obblighi di servizio pubblico posti a carico del gestore, sempre che sia concretamente possibile creare un mercato a monte, e cioè un mercato “in cui le imprese contrattano con le autorità pubbliche la fornitura di questi servizi” agli utenti.

Da tale interpretazione della nozione di rilevanza economica, che richiede l’esistenza di un mercato anche solo potenziale, deriva l’erroneità delle interpretazioni proposte dalle Regioni ricorrenti, secondo cui si avrebbe rilevanza economica solo in presenza di un reale mercato e soltanto quando l’Ente locale decida di finanziare il servizio con gli utili ricavati dall’esercizio di impresa in quel mercato.

La Corte ha inoltre precisato che il servizio idrico integrato si inserisce in uno specifico e peculiare mercato e, pertanto, deve essere correttamente qualificato come avente rilevanza economica.

Alcune Regioni hanno sollevato questione di legittimità costituzionale anche per quanto attiene al comma 10 dell’art. 23-bis, ove si prevede la potestà regolamentare dello Stato di assoggettare al patto di stabilità interno le società partecipate, affidatarie dirette di servizi pubblici locali.

La Corte ha ritenuto tale disposizione incostituzionale, in quanto l’ambito di applicazione del patto di stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica, di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale.

La Corte Costituzionale ha così ritenuto costituzionalmente legittime le norme contenute nell’art. 23-bis del Dl. n. 112/08, ma ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 10, lett. a), della stessa norma limitatamente alle parole “l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno”.

Pubblicato in Senza categoria

Richiedi informazioni